venerdì 8 settembre 2017

MARCINELLE, per non dimenticare



L'entrata alla miniera del Bois du Cazier ©
La pesa all'ingresso della miniera ©
Certo non ne hanno conoscenza i nostri adolescenti e forse neppure i loro genitori, ma la tragedia mineraria di Marcinelle, nei pressi di Charleroi in Belgio, è scolpita nella memoria dei loro nonni: la mattina di mercoledì 8 agosto 1956 un incendio nella miniera di carbone tolse la vita a 262 operai di cui 136 italiani. Fu la punta di un iceberg, portava a conoscenza dei più le fatiche e i rischi del lavoro in miniera che in Belgio, tra il 1946 e il 1960, impiegò 230.000 italiani e, secondo i dati in possesso delle ACLI, i nostri connazionali morti in miniera furono 868.
La torretta del pozzo della tragedia è quello a destra ©
I rischi, anche solo di infortunio, erano frequenti; si scavava in condizioni alquanto difficili in cunicoli di 40-50 cm e i crolli dei puntellamenti in legno delle gallerie erano la prima preoccupazione. E c’era poi il pericolo del gas e di infiltrazioni d’acqua;  a Marcinelle scavavano in un pozzo profondo fino a 1035 metri!
Una condizione che rendeva alquanto problematico l’utilizzo di maschere, per cui ci si copriva naso e bocca col fazzoletto per ridurre l’inalazione di polvere, e così ecco la silicosi, detta anche “malattia del minatore”, e poi enfisema, bronchite, tubercolosi.
Nella miniera del Bois du Cazier, dove avvenne la catastrofe, erano impiegati 800 operai per una produzione che l’anno prima, il 1955, era stata di 170.000 tonnellate.
La mattina dell’8 agosto vi stavano lavorando in 275 e le vittime furono 262 di 12 diverse nazionalità, l’Italia pagò il prezzo più alto con 136 morti di cui 60 abruzzesi, e poi 22 pugliesi, 12 marchigiani,  7 friulani, 7 molisani,  5 emiliani, 5 siciliani, 5 veneti, 4 calabresi, 3 lombardi, 3 toscani, 2 campani, 1 trentino: un lutto nazionale!

L’edizione della notte del Corriere d’Informazione (8-9 agosto 1956) titolava: “300 MINATORI SEPOLTI (la maggior parte italiani) in una sciagura in Belgio. Gli uomini bloccati a oltre mille metri di profondità  mentre divampa un terrificante incendio. Gli ascensori non funzionano perché le fiamme hanno fuso i cavi d’acciaio – Solo 25 operai salvati finora attraverso un cunicolo – Disperato invio di soccorsi – Baldovino sul luogo della tragedia”
La causa? Quella scatenante fu un errore di manovra a 975 metri di profondità del pozzo 1: si fece azionare il montacarichi con un vagoncino non perfettamente agganciato. Durante la salita questo urtò una putrella che tranciò un cavo elettrico e un tubo dell’olio: una scintilla e le fiamme furono immediate e alimentate peraltro dall’aria compressa. Si cercò di intervenire immediatamente per portare in salvo i minatori; oltre alle squadre accorsero anche colleghi che erano nel turno di riposo. Le ricerche si protrassero fino al 23 agosto quando un italiano delle squadre di soccorso, risalendo, esclamò “Tutti cadaveri!” Si erano salvati solo in tredici.


Ma perché gli Italiani in miniera?
Fu il risultato dell’accordo italo-belga definibile in “braccia per carbone”; un protocollo firmato a Roma il 27 aprile 1947 con cui il nostro Paese si impegnava a fornire 50mila lavoratori per le miniere belghe, 2mila la settimana con un irrevocabile vincolo di lavoro di un anno, pena l’arresto (!). L’Italia avrebbe ricevuto, a prezzo preferenziale, 2500 tonn. di carbone ogni 1000 lavoratori impiegati.
La Federazione Carbonifera Belga, che aveva la sede di Milano in piazza S. Ambrogio 3,  si prodigò nell’affiggere manifesti in cui si promettevano salari elevati, carbone , viaggi gratuiti, assegni familiari, ferie pagate e pensionamento anticipato.
In realtà, oltre ad una certa diffidenza della popolazione locale, il primo sgradevole contatto fu con gli alloggiamenti: baracche, quando non hangar che avevano alloggiato prigionieri di guerra, niente luce e un bagno per ogni baracca o capannone e poi i ritmi di lavoro che erano estenuanti, ma la fame portava a rischiare. 
Tuttavia i primi segnali negativi di cosa significava lavorare in miniera si ebbero l’11 maggio 1950 a Trazegnies dove morirono 40 lavoratori, 3 le vittime italiane. Il 21 settembre dell’anno successivo nuova sciagura: a Quaregnon 7 morti, un belga e 6 italiani. Nel maggio 1952, in due incidenti presso il bacino di Charleroi, persero la vita 10 minatori tra cui 6 italiani.
In miniera c’erano dunque operai di ogni parte ed è ingiusto quanto ingeneroso affermare che quel lavoro fosse snobbato dai belgi perché quella mattina, al Bois du Cazier, ne perirono 95. Con loro polacchi, greci, tedeschi, ungheresi, algerini, francesi, un russo, un ucraino, un britannico ed un olandese.
La miniera, dopo alcuni interventi per migliorare le condizioni di lavoro, riprese  l’attività nel 1957 per cessare definitivamente nel 1967.

Emblematico vis à vis tra popolo e dignitari
Le riproduzioni di foto della gente il giorno della tragedia ©
Oggi, di quella struttura, sono rimasti gli edifici principali, le torri dei pozzi 1 e 2, e un capannone che era servito come alloggio dei minatori. Hanno creato un museo e un ristorante (!). Attorno il paesaggio, appena ondulato, presenta delle colline a cono, sono i terril, cumuli di detriti delle estrazioni minerarie. Ma è soprattutto il villaggio attorno, il Coron, che parla con le sue strutture e, come murales, riproduzioni di foto scattate all’indomani della tragedia: persone in formato naturale, volti in cui possiamo leggere attesa, angoscia e paura per il futuro.
Sono lì a testimoniare più di qualsiasi parola una grande tragedia, soprattutto italiana, che non va dimenticata.
Abitazioni nei pressi della miniera e, sullo sfondo, un terril
Cliccare sulle foto per ingrandirle  (autore delle foto Gianmaria Italia © proprietà riservata)



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